L’ultimo tariffario reso noto dagli inquirenti è di inizio 2019. Dai 3.000 ai 5.000 euro tre volte l’anno, in occasione delle feste, più qualche “extra” nelle grandi occasioni. Non c’è chi a Napoli – investigatori compresi – non conosca tempi, modalità e spesso anche gli artefici del racket, esteso praticamente a qualsiasi attività imprenditoriale o commerciale sotto il Vesuvio, dai giganti della ristorazione fino alle bancarelle dei mercati rionali, senza contare comparti “tipici” della malavita organizzata, come le feste di piazza o lancio ed esibizioni di cantanti neomelodici.
Nessuna meraviglia, perciò, se una “bombetta” di camorra possa essere diventata volano di uno straordinario marketing, come è successo alla star delle Margherite filanti, il noto pizzaiolo Gino Sorbillo, in queste ore costretto ad ammettere, dopo lo scoop del Corriere del Mezzogiorno, che la bomba esplosa qualche mese fa dinanzi al suo locale di via Tribunali era in realtà destinata ad un più modesto concorrente. Di Gino Sorbillo, peraltro, la Voce si era già occupata in un articolo uscito nell’immediato, dopo che il boom aveva fatto salire alle stelle le quotazioni del pizzaiolo-chef, il quale contestualmente si accingeva ad inaugurare un nuovo locale in centro nella capitale, dove a tutt’oggi, per quanto se ne sa, occorre prenotare con una settimana d’anticipo tanta è l’affluenza. Bruno Vespa mostra il libro di Angelo Pisani. In apertura Gino Sorbillo A meravigliare è piuttosto il fatto che, pur essendo arcinote a tutti, le scorribande quotidiane degli estorsori continuino a far registrare autentiche escalation. E questo, benché proprio sulla “guerra” delle pizzerie sia uscito da qualche mese un libro-denuncia, “Diritto alla pizza”, scritto da un avvocato noto per il coraggio delle sue battaglie, Angelo Pisani. Un volume cui non è mancata una vasta eco, visto che ha riscosso un caloroso successo di pubblico perfino negli Usa e, in Italia, ha trovato spazio nel salotto buono di Bruno Vespa, a Porta a Porta. Oggi una nuova detonazione: la notizia sulla “falsa” bomba a Gino Sorbillo. Che, guarda caso, è proprio uno dei personaggi del volume di Angelo Pisani, difensore di un altro Sorbillo, Luciano, dagli attacchi giudiziari sferrati proprio da Gino per impedirgli l’utilizzo del cognome di famiglia nella sua pizzeria. Precursore per vocazione, Pisani nel libro «guarda oltre ciò che gli altri vedono – scrive nella prefazione un magistrato acuto come Nicola Graziano – e ci descrive un futuro che potrebbe portare alla decadenza di un valore inestimabile quale quello della pizza napoletana». Un potente grido d’allarme, dunque, questo libro: «nel descrivere le faide interne alle famiglie di pizzaioli napoletani e non – si legge ancora nella lucida prefazione di Graziano – Angelo spiega perché questo conflitto nel nome del Dio denaro potrebbe portare a una volgarizzazione dell’arte della pizza, che non si impasta a suon di carte bollate o di decisioni del Tribunale, ma con la fantasia che ogni pizzaiolo mette». Angelo Pisani «Ho scelto per valori e tradizione di schierarmi dalla parte del più debole – spiega Pisani – di chi mi appare essere nel giusto e nella ragione, difendo infatti in tribunale il semplice e modesto pizzaiolo Luciano Sorbillo e la sua famiglia dagli attacchi giudiziari del mediatico e famoso pizzaiolo Gino Sorbillo». E’ da tempo che il più celebre Gino cerca di inibire l’utilizzo del cognome di famiglia perché, a suo dire, nessuno dei 21 familiari Sorbillo, tutti pizzaioli, lo deve utilizzare e commercializzare, solo lui. «Questo naturalmente lo si vedrà – attacca Pisani – fino ad arrivare alla Corte Europea». Quanto alla bomba carta, «ritengo che per onestà intellettuale – aggiunge il legale – la verità su questa vicenda richiederebbe una spiegazione, nonché le dovute scuse per l’equivoco e i giganteschi danni di immagine alla città connessi alla strumentalizzazione del caso». Di sicuro, “Diritto alla Pizza” resta oggi un libro ancor più attuale, con il suo sguardo su quel che accade e succederà in futuro nel mondo del piatto più richiesto al mondo. «A giudicare dalle cronache – taglia corto Angelo Pisani – avevo visto bene: basta tradimenti, pubblicità ingannevoli, strumentalizzazioni e strani affari, perché nell’universo della pizza c’è bisogno di educazione, valori, regole, legalità e cultura, se si vuole crescere forti e sani, tenendo alla larga la criminalità». Fonte www.lavocedellevoci.it articolo di Furiò lo Forte
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Anno domini 1984: nasce a Napoli l’Associazione Verace Pizza Napoletana (AVPN), senza fini di lucro, allo scopo di promuovere e tutelare, in Italia e nel mondo, la vera pizza napoletana, vale a dire il prodotto tipico realizzato secondo le caratteristiche descritte nel Disciplinare STG al fine di ottenere il marchio collettivo “Vera Pizza Napoletana”, redatto e registrato dall’AVPN. Oggi la Pizza Napoletana STG (Specialità Tradizionale Garantita) cambia disciplinare, ma è la solita assurdità fine a se stessa. In occasione delle Olimpiadi della Vera Pizza Napoletana e del 35esimo anniversario dell’Associazione Verace Pizza Napoletana è stata presentata dal vicepresidente Massimo Di Porziola nuova versione del Disciplinare, con tutte le modifiche introdotte. Un aggiornamento storico, dicono. Forse per loro. Il disciplinare della Pizza Napoletana STG Il Disciplinare Internazionale dell’Associazione Verace Pizza Napoletana è quell’insieme di regole codificate allo scopo di definire le caratteristiche di preparazione e riconoscimento dell’unica vera pizza napoletana ammissibile nel mondo. Tanto per capirsi, la “verace pizza napoletana” (vera pizza napoletana) è prodotta – cito testualmente dal Disciplinare: “Con un movimento dal centro verso l’esterno e con la pressione delle dita di entrambe le mani sul panetto, che viene rivoltato varie volte, il pizzaiolo forma un disco di pasta in modo che al centro lo spessore sia non superiore a 0.25 cm con una tolleranza consentita pari a ± 10 %“. Pizza che deve, altresì, presentare un impasto con queste caratteristiche:
I limiti sono storici e ormai noti: l’altezza del bordo, la dimensione del panetto e del disco di pasta, le grammature degli ingredienti, le materie prime utilizzate per la farcitura e le loro provenienze (esclusivamente campane), fino ad arrivare alle implicazioni più sensibili come l’utilizzo del solo forno a legna, del lievito di birra e la fermentazione esclusivamente a temperatura ambiente per 6-8 ore. Successivamente è stata introdotta una deroga per quanto riguarda l’utilizzo del forno a gas o ad “energie alternative”, purché approvati dall’AVPN e solo a fronte di una documentazione che attesti l’impossibilità di utilizzare il forno a legna. Occhio insomma, l’AVPN vede tutto, peggio di Sauron. Se non mi credete leggete il Disciplinare e comprenderete perché ad attuarlo sono ben pochi pizzaioli, più o meno quante le dita delle mie mani. Piuttosto controproducente per la diffusione della pizza napoletana “autentica” nel mondo, non credete? Il nuovo disciplinareCon la recente modifica, il testo è stato ampliato, con particolari evidenze sulla descrizione delle materie prime per la farcitura e delle attrezzature come forni e impastatrici, ben più articolate ed esaustive. Anche la struttura ha subito una forte variazione, e risulta più lineare, argomentata e ordinata. Sono altri tuttavia i cambiamenti su cui è bene spendere qualche parola. Andando con ordine di impaginazione, il primo forte aggiornamento riguarda l’utilizzo delle farine, con l’inclusione della tipo 0 ma soprattutto di una percentuale di tipo 1 che varia dal 5 al 20% massimo. In secondo luogo, al già citato lievito di birra fresco sono stati introdotti il lievito madre e il lievito di birra secco senza miglioratori addizionati. Last but not least, l’approfondimento sui processi di lievitazione e maturazione dell’impasto, con asserzioni riguardanti la digeribilità migliorata sul prodotto; la lievitazione rimane rigorosamente a temperatura ambiente ma può spaziare dalle 8 alle 24 ore. Importante è anche l’assolutismo specificato nel paragrafo dedicato alla ricetta, che ha lo scopo di fissare un grosso paletto, nel tentativo forse di demonizzare alcuni prodotti in voga al momento. Nelle “regole essenziali da rispettare” infatti si parla di impasto diretto, di partire dall’acqua per la preparazione e dell’assenza di grassi o zuccheri nell’impasto. Bocciata, insomma, la blasonata biga. Io ve l’ho detto che l’AVPN vede tutto. Il nonsense punto per puntoPartiamo da un rapido presupposto: l’AVPN si è sempre preposta una battaglia di per sè giusta (la certificazione dell’autenticità della vera pizza napoletana nel mondo) utilizzando però dei metodi completamente sbagliati. A cominciare dalla nomina in STG (Specialità Tradizionale Garantita, di fatto legata a determinate specifiche di produzione) e dall’esclusività degli ingredienti campani. Ora voi ditemi come dovrebbe fare un giapponese o un thailandese a utilizzare una mozzarella FRESCA esclusivamente campana se ad arrivare impiega una settimana. Se la tutela è globale, ai fini di evitare prodotti copiati, plagi e quant’altro, la prerogativa non dovrebbe essere quella di assicurare la fattibilità della pizza stessa in ogni parte del mondo? Sugli errori e sulle bufale tecniche ormai dovreste essere preparati, VERO? Abbiamo ampiamente discusso sulle verie discriminanti per la digeribilità di un panificato, attribuibili più alla corretta cottura che alla maturazione dell’impasto. Così come abbiamo detto che l’utilizzo del lievito di birra e del lievito madre non è confrontabile e traducibile solo sulla base del quantitativo in grammi; il processo stesso infatti, è e deve essere completamente diverso. Ancora, la deroga su forni “alternativi” in presenza di una documentazione che attesti l’impossibilità di installare il forno a legna è provocatoria, testarda e distruttiva, frutto di quel romatico retaggio già discusso che non solo non porterà mai da nessuna parte, ma che rischia di togliere dallo spettro visivo di molti neo-professionisti gli enormi pregi che macchine elettriche e a gas possono avere. No, non mi stancherò mai di ripetervi questi concetti, e anzi, ne approfitto per introdurne uno fresco fresco: impastare partendo dall’acqua è un errore tecnico ENORME. Anzitutto, è la farina che assorbe l’acqua e non il contrario, e il glutine stesso si forma mano a mano che la vostra polvere bianca comincia a idratarsi e a trasformarsi, in maniera decisamente più rapida ed efficace. Partire da una pastella bagnata vi allungherà solo i tempi, rendendovi per altro impossibile il lavoro in caso di idratazioni elevate. E oltre al danno, la beffa: in un mondo (quello della panificazione) dove qualsiasi preparazione viene standardizzata tenendo come riferimento la farina, la pizza napoletana continua a rimanere l’unica ancorata a un insulso retaggio storico; in questo modo il confronto con altri prodotti è complicato, e non vi consente di avere quella visione di insieme necessaria per crescere professionalmente. Oggi conoscere più processi è fondamentale per una formazione più completa, mettetevelo bene in testa. Un aggiornamento storico, un clamoroso ritardoA prescindere da errori e imprecisioni, stiamo parlando di un cambiamento arrivato a valle di una trasformazione già da tempo in atto nel mondo della pizza napoletana. Sono anni che si parla di maturazione, di fermentazione, dell’importanza dei processi, dello studio degli ingredienti, dell’utilizzo o meno della pasta madre, della preferenza per lievito fresco o secco, delle varie tipologie di forno e dei prefermenti. Sono anni che la VERA pizza napoletana ha preso il largo, distanziandosi da questi concetti astrusi e ridicoli. Sono anni che l’AVPN viene presa come esempio di testardaggine e patriottismo assurdo italiano; in una delle puntate di Ugly Delicious, lo show di Netflix di David Chang, si parla proprio del “razzismo” gastronomico degli italiani nei confronti del resto delle preparazioni, di cosa è “pizza” e cosa no, e dell’impossibilità per chiunque abbia un’attività nel resto del mondo di fare uso di ingredienti napoletani in quanto non arriverebbero freschi. Le parole stesse di Antonio Pace, riprese nella puntata, rimarcano un concetto assurdo e che purtroppo passa per totalitario, immagine di un paese dalla mentalità chiusa e ristretta: l’unica vera pizza è quella napoletana, l’unica vera napoletana è quella di napoli, il resto non esiste. Come già affermato, un intento inizialmente nobile come quello del disciplinare AVPN ha come unico effetto quello di risultare ridicolo e inapplicabile, o non si spiegherebbero le sole 793 pizzerie iscritte su circa 28.000 in tutta Italia (dato di Febbraio 2018). E non sono rari i casi di celebri professionisti usciti dall’AVPN, anche tra i napoletani. Il vice-presidente Massimo Di Porzio, durante le olimpiadi, ha parlato di un processo non facile, che dovendo trattare un’antica tradizione ha richiesto un lavoro lungo, durato 4 anni con test e ricerche. Un magro tentativo di giustificare l’imperdonabile e assurdo ritardo di tali aggiornamenti. Tantissimo lavoro per cosa, per scrivere una pagina in più? Non c’è stato nemmeno il “coraggio” di ammettere l’utilizzo delle celle a temperatura controllata per le fasi di lievitazione, una pratica comune DA DECENNI. Se nel vostro laboratorio ci sono 35 gradi che fate, accendete un cero in chiesa? Ma soprattutto, l’imposizione sul metodo diretto pare l’ennesima, disperata iniziativa di denunciare l’utilizzo dei prefermenti, una pratica ormai parecchio in voga tra i professionisti. Davvero siete convinti che basta una riga su un pezzo di carta per fermarne l’evoluzione? Davvero siete convinti che tale dichiarazione avrà qualche effetto sull’economia del mondo pizza? A parer mio, l’aggiornamento del Disciplinare Internazionale STG ha un solo, evidente risvolto: la disperata mossa di un’associazione che si è uccisa con le sue stesse mani, un tentativo inutile di mettere becco su un mondo già troppo avanzato per la una mente chiusa e del tutto anacronistica. Del resto stiamo parlando di gente che nel 2019 è ancora convinta che la pizza sia più buona a Napoli perché l’acqua è diversa. Fonte dissapore.com Tutti a tavola! Per mangiare che cosa? La pubblicità delle tv ci racconta che tutta la pasta industriale è prodotta con il grano duro italiano. Ma noi scopriamo che le due Regioni che producono l’80% circa del grano duro italiano – Puglia e Sicilia – hanno il prodotto invenduto. Passata e pelati di pomodoro? In maggioranza cinesi o nord africani. Da condire con l’olio d’oliva tunisino spacciato per italiano al costo di 3-4 euro a bottiglia. E… buon appetito!
Non stiamo dicendo nulla di nuovo: proviamo soltanto a mettere insieme una serie di articoli che abbiamo scritto ad agosto e nei primi dieci giorni di settembre. Ne viene fuori un bel ‘quadretto’: la vera Sicilia a tavola e, perché no?, la stessa Italia a tavola, che, in verità, è un po’ diversa da quella che ci racconta ogni giorno la tv con la pubblicità. Sono fatti. Ieri abbiamo pubblicato un articolo che riprende un video di Teledauna. E’ la Web Tv della ‘Capitanata’, l’area del grano duro per antonomasia della Puglia. Sì, della Puglia, la prima Regione italiana per la produzione di grano duro (QUI IL NOSTRO ARTICOLO). Tre le notizie. La prima è che il porto di Bari è letteralmente invaso da grano duro estero, compreso quello canadese ‘ricco’ di glifosato e micotossine. La seconda notizia è che gli agricoltori pugliesi si rifiutano di vendere il proprio grano duro a 22 euro al quintale. La terza notizia è che, se il Governo nazionale non interverrà, gli agricoltori pugliesi, non semineranno più il grano duro. Se guardiamo lo scenario in Sicilia – seconda Regione italiana per la produzione di grano duro – prendiamo atto che, anche quest’anno, molti agricoltori non hanno venduto il proprio grano. Sapete perché scriviamo “anche”? Perché nella nostra Isola tanti agricoltori hanno stoccato anche il grano duro prodotto lo scorso anno. La motivazione è sempre la stessa: si rifiutano di vendere il proprio grano ad un prezzo che è addirittura di qualche euro inferiore al grano duro pugliese: 18-20 euro al quintale. Se, però, seguiamo la ‘narrazione’ delle pubblicità sulla pasta industriale italiana scopriamo che è tutta “pasta prodotta con grano duro italiano”. Da qui una domanda: ma se gli agricoltori della Puglia e della Sicilia il grano duro non lo stanno vendendo, da dove cabbasisi lo prendono il grano duro italiano per fare la pasta le industrie? Ancora: se tutta la pasta industriale italiana è fatta con “grano duro italiano” che fine fa il grano duro estero che, come racconta Teledauna, arriva ogni giorno con le navi nel porto di Bari? Per altro, detto per inciso, in Puglia non c’è solo il porto di Bari: ci sono altre tre o quattro porti dove le navi cariche di grano arrivano con tanto di segnalazione. Anche in Sicilia arrivano le navi cariche di grano duro da mezzo mondo. Ma, a differenza della Puglia, nella nostra Isola resiste una ruspante mentalità mafiosa e la pubblica amministrazione si guarda bene di far sapere ai cittadini la verità sul grano estero. Qualche notizia la riusciamo ad acciuffare qua e là, soprattutto sul porto di Pozzallo, lo scalo meno ‘malandrino’. Di quanto avviene nei porti di Palermo, Catania e Mazara del Vallo, in materia di grano & navi, non si sa una mazza. Come li cuciniamo gli spaghetti? Colpomodoro, ovviamente. Pomodoro italiano? No, meglio la passata di pomodoro cinese, magari opportunamente ‘italianizzata’, come hanno documentato in un servizio Le Iene (QUI UN NOSTRO ARTICOLO CHE RIPRENDE IL SERVIZIO DE LE IENE). Come per la pasta, anche per i pomodori pelati e per la passata di pomodoro ci raccontano che è tutto italiano. Solo che noi, in Sicilia, tutto ‘sto pomodoro di pieno campo non lo riusciamo più a vedere. Quello che sappiamo, del nostro pomodoro, è che, rispetto al pomodoro cinese o nord africano, è fuori mercato. In Cina e in Africa i costi di produzione – in testa il costo del lavoro – sono molto più bassi. Da noi un operaio agricolo per la raccolta del pomodoro costa 80-100 euro al giorno. In Cina e in nord Africa, da 3 a 5 euro al giorno. Non c’è partita, non ci può essere partita. In più, quei produttori agricoli che assumono operai extracomunitari in nero a 30 euro al giorno (solo loro accettano di lavorare otto ore al giorno per 30 euro, gli italiani si rifiutano) sono additati come pessimi esempi: caporalato e altre accuse, più multe ‘salatissime’. Nel Sud – soprattutto in Sicilia – il pomodoro di pieno campo va diminuendo. Rischiare contravvenzioni e denunce per caporalato è diventato rischioso. Risultato? Indovinate… Sì, avete indovinato: non restano che i pelati di pomodoro in scatola e la passata di pomodoro nelle confezioni di vetro. Prodotti rigorosamente italiani… Dell’olio d’oliva extra vergine i nostri lettori sono già informati. Ne approfittiamo per tornare a ribadire che una bottiglia di extra vergine dal costo di 3-4-5-6 euro non va acquistata. Lasciatele, queste bottiglie di “extra vergine”, sugli scaffali dei supermercati. Ricordatevi che quest’anno un litro di vero olio extra vergine di oliva del Sud Italia – zona d’elezione per la produzione – costerà, in media, 10 euro al litro. Qualcosa in più in Puglia, qualcosa in meno in Calabria e in Sicilia. L’olio d’oliva extra vergine acquistatelo presso le aziende e, con molta attenzione, presso i frantoi. Perché dovete prestare attenzione ai frantoi? Perché la Sicilia è letteralmente invasa da olio d’oliva tunisino. E c’è il dubbio che, all’atto della molitura delle olive, all’olio fresco venga miscelato l’olio d’oliva tunisino. Ricordatevi che in Sicilia i ‘magheggi’ all’olio d’oliva sono all’ordine del giorno. Emblematico quello che è avvenuto nei giorni scorsi tra il porto di Palermo e Sciacca, provincia di Agrigento. Vi abbiamo raccontato che 800 tonnellate – 800 tonnellate! – di olio d’oliva tunisino sono state sdoganate nel porto di Palermo. Per essere spedite a Sciacca (QUI IL NOSTRO ARTICOLO). Si tratta di un quantitativo impressionante. Ci sono stati controlli? Non lo sappiamo. Ma sappiamo due cose. La prima cosa è che la presenza di questo carico l’abbiamo scoperta per caso. Ciò significa che di olio d’oliva tunisino, in Sicilia, ne sarà arrivato chissà quanto. La seconda cosa è che le autorità dovrebbero vigilare affinché questo olio d’oliva tunisino – almeno le 800 tonnellate – venga venduto con la dizione “Olio d’oliva tunisino extra vergine, biologico” eccetera. Sarà così? Aspettiamo. Ultima notazione: l’assenza del Governo nazionale e dei Governi della Regione siciliana e della Regione Puglia. Dal Ministro delle Politiche agricole, il leghista Gian Marco Centinaio, non ci aspettiamo: fino ad oggi non ha fatto nulla per il Sud e non crediamo che farà qualcosa. Del presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, sappiamo che ama il pesce: è per questo che si disinteressa dell’agricoltura? Il presidente della Regione, Nello Musumeci, in campagna elettorale e poi anche dopo il suo insediamento, si è impegnato ad controllare tutti i prodotti agroalimentari che arrivano in Sicilia dall’estero. Ancora lo stiamo aspettando… Fonte inuovivespri.it Il Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali rende noto che il comitato per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale dell'umanità dell'Unesco ha iscritto "L'Arte del Pizzaiuolo Napoletano" nella lista degli elementi dichiarati Patrimonio dell'umanità.
La candidatura è stata avviata dal Mipaaf nel marzo 2009 ed è stata condotta da una specifica task force di esperti guidata dal professor Pier Luigi Petrillo. "Il Made in Italy ottiene un altro grande successo - afferma il Ministro Maurizio Martina - È la prima volta che l'Unesco riconosce quale patrimonio dell'umanità un mestiere legato ad una delle più importanti produzioni alimentari, confermando come questa sia una delle più alte espressioni culturali del nostro Paese. È un'ottima notizia che lancia il 2018 come anno del Cibo. L'arte del pizzaiuolo napoletano racchiude in sé il saper fare italiano costituito da esperienze, gesti e, soprattutto, conoscenze tradizionali che si tramandano da generazione in generazione. È un riconoscimento storico che giunge dopo un complesso lavoro negoziale durato oltre 8 anni, che premia l'impegno del Ministero al fianco delle associazioni dei pizzaiuoli. Ringrazio le istituzioni locali, la Regione Campania, gli esperti del Ministero e tutti quelli che col loro impegno hanno reso possibile questo risultato che ribadisce il ruolo di primo piano svolto dal nostro Paese nel valorizzare la propria identità enogastronomica." Nel 2010 è arrivata la proclamazione della Dieta Mediterranea, primo elemento culturale al mondo a carattere alimentare iscritto nella lista dell'Unesco; nel 2014, il riconoscimento della coltivazione della "Vite ad alberello" di Pantelleria, primo elemento culturale al mondo di carattere agricolo riconosciuto dall'Unesco. Ora "L'Arte del Pizzaiuolo Napoletano". Dei 6 elementi italiani riconosciuti dall'Unesco patrimonio dell'umanità, 3 sono riconducibili al patrimonio agroalimentare, a conferma che in Italia il cibo e l'agricoltura sono elementi caratterizzante la cultura del Paese. Ufficio Stampa fonte Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali La quantità di sale utilizzata in un impasto può variare fra l’1,8 e il 2,5% in base al tipo di prodotto che si vuole utilizzare. Esistono però tipi di prodotto (come ad esempio il pane toscano) che non contengono sale. Analizziamo dunque brevemente l’influenza del sale sulla microflora, sulle caratteristiche dell’impasto e sul prodotto finito.
Aggiungendo una piccola quantità di sale nell’impasto (fino allo 0,5%) viene stimolata notevolmente l’attività delle cellule del lievito mentre una quantità di sale superiore allo 0,5% rallenta lo sviluppo delle cellule favorendo la plasmolisi (distruzione della cellula dalla pressione del sale avente un peso maggiore rispetto alla cellula stessa). Questo fenomeno può essere facilmente dimostrato se vengono messi a contatto il sale con del lievito compresso. Dopo qualche minuto dal lievito fuoriesce acqua perché il sale ha causato la rottura della membrana delle cellule del lievito. Per questo motivo il sale e il lievito non devono essere messi nell’impasto contemporaneamente. Il sale inoltre svolge un’azione disinfettante nell’impasto in quanto blocca lo sviluppo e l’attività metabolica dei microrganismi. Effetto positivo perché vengono parzialmente inibiti i batteri e i microrganismi patogeni responsabili delle malattie del pane e della crescita delle muffe e, inoltre, vengono inattivati parzialmente altri batteri che con la loro fermentazione aumentano l’acidità dell’impasto e determinano nel prodotto un gusto e un profumo troppo forti. La presenza del sale nell’impasto rallenta l’attività degli enzimi e, grazie alla sua capacità di assorbire l’acqua l’impasto risulterà meno appiccicoso e più elastico. Il sale agisce positivamente sul glutine rendendo la maglia glutinica più resistente. L’impasto con aggiunta di sale risulta asciutto ed elastico e non si appiccica durante la formatura, mentre un impasto senza sale risulta appiccicoso e difficile da lavorare. Un’eccessiva quantità di sale nell’impasto rende la maglia glutinica troppo rigida e corta, rallenta la fermentazione e peggiora la qualità sia dell’impasto sia del prodotto, limitandone lo sviluppo. Se aggiunto all’impasto in quantità moderata, il sale influisce positivamente sulle caratteristiche del prodotto finito conferendogli l’esatto volume, rendendolo soffice, fragrante, profumato e con la giusta colorazione della crosta. Un prodotto ottenuto da un impasto a cui erroneamente non è stato aggiunto il sale, oltre ad essere insipido, avrà una forma piatta e larga, un volume scarso e una crosta troppo chiara. La forma piatta e larga è dovuta alle limitate qualità dell’impasto (appiccicoso e colloso), mentre la crosta chiara è dovuta a una fermentazione eccessiva (mancanza di sale che rallenta l’attività del lievito, la fermentazione dell’impasto sarà troppo veloce con un consumo di zuccheri che mancheranno al momento della colorazione). di Piergiorgio Giorilli Fonte Accademia Pizzaioli |
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